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Channel: think different
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I

l divano ne accoglie il corpo affaticato ma non ancora sfinito mentre il fumo della sigaretta, tenendo a distanza l'ozio, rigenerandolo mentalmente, lo prepara all'ultima fatica ovvero lavare il pavimento. Guardandolo si chiede cos'ama e, pensandoci deve rivedere le sue convinzioni. Per quale motivo, familiari o meno, calzati o scalzi, dovrebbe amare i suoi passi? In fondo, calpestandolo, non ha nessun riguardo per lui. No, meglio ricredersi e darsi meno importanza, il pavimento ha la stessa anima di chiunque. Ama chi lo accarezza, chi se ne prende cura e poco importa se è una scopa o uno straccio. Il pavimento è come noi e la scopa o lo straccio sono attenzioni, carezze, gesti, come lo sono le parole. Accarezzate come quelle della scopa o leccate come quelle dello straccio. I pavimenti sono anime distese.


door

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L

e icone, così ricorrentemente utilizzate nel nostro quotidiano rapporto, prima col pc e poi col cellulare, hanno fatto sempre parte della nostra vita. Addirittura prima dell'uso della parola. Quel prima che vale per gli albori dell'umanità così come vale per il bambino nei primi mesi di vita. Quel memorizzare per immagini. Più che un'abitudine, l'icona rimane una necessità fisiologica della mente umana quando archivia qualcosa. Gli stati d'animo sicuramente puoi archiviarli con le parole ma, molto più facile, farlo iconizzandoli. La malinconia, ad esempio, sta nel mio archivio con un'immagine ricorrente, quella di mia madre, quando lavava il pavimento e fuori pioveva. Così, ogni volta che piove, come un clic sull'iconcina di lei che lava a terra, mi tornano in mente le sue parole. Sempre quelle. Proprio come l'etichetta o didascalia all'iconcina: "chiove, e nun s'asciutta 'nterra". Quel piove, e non si asciuga a terra che, come un elastico maligno, ti riporta indietro bruciando i passi avanti che hai fatto e allora, il ritornello, che sembra essere la parte migliore di una canzone, diventa la sua condanna e la riduce solo a quello. La strofa successiva è solo un falso passo avanti perché, mentre cerchi di addormentare, coccolandolo, l'orso che c'è in te, c'è un ritornello che ti aspetta dietro la porta. E tu, con le sigarette in una mano e la maniglia nell'altra, tiri. Una, due volte finché quella dietro non ti dice con un sorriso paziente "aspetta faccio io" e, anziché tirare, spinge. Così magicamente la porta si apre e lei, sorridendo, fa scivolare l'indice sulla scritta "spingere".

House of Cards

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C'

è una serie tv che sto guardando in streaming e mi sta appassionando per la qualità complessiva della stessa. E' recitata benissimo da un cast all'altezza di un grandissimo Kevin Spacey e di una fantastica Robin Wright. Ha una splendida fotografia ed una trama ben congegnata senza mai pause e momenti down. Calamita l'attenzione senza mai andare sopra o sotto le righe. Si chiama House of Cards e viene presentata con la classica definizione di "intrighi di potere". Una definizione che cerca d'ingentilire o prendere le distanze da un altra definizione che viene normalmente usata per robe simili ovvero "storie di malavita". In fondo si tratta sempre di malavita e malviventi. Cambiano solo le inquadrature e le prospettive. Se riprendi dal basso le chiami "storie di malavita" se riprendi dall'alto le chiami "intrighi di potere". E' la solita ipocrisia del linguaggio per dare dignità diverse alla stessa malavita. Fermo restando il mio giudizio storicamente negativo sugli States devo ammettere che questa serie evidenzia la differenza di strumenti utilizzati per la difesa della cosiddetta "democrazia" e della Costituzione, fra un paese come quello ed altri. Il confronto infatti è abissale ma anche ingeneroso perché quello è un paese, altri solo una fogna. A tratti a cielo aperto, a tratti no.

307

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P

er una vita felice, il bene più grande è l'amicizia. Epicuro (n. 307). Quel numero 307 fra parentesi non è un riferimento che aumenta la dignità della citazione, infatti è solo il numero del bigliettino trovato in un cioccolatino. Così, gustandomi la cioccolata mista alla granella di nocciola, finisco di scorrere quel caotico affollarsi di concetti tenuti assieme da un egocentrico inconcludente nulla che mi riporta in mente papà quando mi spiegava quanto fosse inutile e pericoloso prendere in mano un libro e leggerlo senza essere passato prima per il banale esercizio di A come Ape. Così, un po' per pigrizia, un po' per noia, tornando ad Epicuro, penso che una strada sicura che conduce alla felicità è farsi i cazzi propri.

storie

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Q

uando il pensiero inciampa o deve fare i conti con la vita concreta può accadere che la ricchezza intellettuale, il suo spessore, la sua ricercatezza e, perché no, la sua credibilità si sbriciolino come accade alla filosofia che perde credito quando, volando alto, la scopri come un immenso campo diviso in mille orticelli dove ognuno cura il suo e comprendi quanto ciascuno eviti quel confronto che, anziché dividere, unisca. Quei singoli orticelli che, presi singolarmente, hanno tutti una loro logica e saranno tutti convincenti ma, se provi a metterli assieme per arrivare ad una logica comune, alzano impenetrabili recinzioni di filo spinato. Chiunque sia quel dio che ha creato l'umanità, deve essersi divertito da matti quando ha modellato la donna. Altro che prendere una costola al povero Adamo, a me sembra che abbia voluto, invece, infilargli proprio una spina nel fianco. Qualcosa che fosse molto più di un buco fra le cosce destinato alla riproduzione. Qualcosa che togliesse certezze al tizio con due coglioni fra le gambe ed uno sul collo. Qualcosa che, al momento giusto, gli rovinasse quell'impalcatura che appariva indistruttibile e che spesso si autocostruisce con tanta cura. Quel dio, aveva bisogno di un essere speciale e chi meglio di una donna?
C'è una storia che, a seconda della prospettiva culturale di chi legge, può assumere il senso che gli si vuole dare. Potrebbe non piacere, perciò handle with care.

linguaggi

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N

el nostro universo, come in qualunque altro, la casualità non esiste e tutto ha un suo motivo. Il problema è la dimensione del numero. Più sarà alto il denominatore, più sarà bassa la probabilità che si verifichi qualcosa oppure più saranno i fattori che interessano un evento e più sarà difficile dire dove si fermerà una pallina da tennis lanciata in aria. A questo punto è più comodo, anche se inesatto, dire che la pallina si fermerà in un punto casuale. La coincidenza è qualcosa di diverso, anche se spesso, anch'essa viene definita casuale. Nemmeno la lettura della coincidenza, intesa come interpretazione del linguaggio, è casuale. Potrà essere corretta o sbagliata ma non casuale. Nemmeno questo post è casuale. Come nessun altro.

guida michelin

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N

on esistono posti belli e posti brutti. Esistono solo individui capaci o incapaci e stati d'animo. Così a chi vorrebbe obiettarmi che un ospedale o un carcere possa essere finanche bello, mi è facile rispondergli che se, intanto, l'uno o l'altro rispondessero alla loro necessità, sarebbero essi stessi belli in quanto accettati dallo stato d'animo di chi li vivrebbe come un luogo amico che partecipa al tuo dramma e farà tutto quanto possibile per recuperarti alla vita. Sana o lecita che sia, poco conta. Lui c'è. E' banale che se quel luogo, a causa d'individui incapaci o, peggio, disonesti, è un luogo che non si cura della tua dignità d'individuo e, questo, a prescindere se ci sei finito per colpe o errori tuoi o d'altri, allora, giocoforza, quel luogo sarà brutto. Così un locale, anonimo, con tavolini sparsi, tondi e perfino sghembi può diventare bello laddove gli occhi più che le parole la fanno da padrone. Il piano largo ma non troppo che consente di sfiorarsi con le ginocchia, accorcia le distanze. Altri tavoli, altre storie. Ritrovarsi con lei a cavallo sulle tue gambe nel privato di un pubblico dove la distanza fra i tavoli è come quella fra le stelle che son vicine soltanto da lontano. Così  mettendo assieme due stati d'animo succede che un locale, anonimo, con tavolini sparsi, tondi e perfino sghembi, si ritrova nella michelin dei posti belli.

equilibrismi

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L

a tensione superficiale è una forza presente non solo nei liquidi ma anche nei solidi. La differenza sta nel fatto che, a differenza dei solidi, i liquidi, mostrando sempre il loro movimento, la rendono più percepibile all'occhio. Essa viene definita come la forza per unità lineare che tiene uniti i due lembi di un ipotetico taglio praticato sulla superficie libera di un fluido. Volendola rappresentare in termini umani, la tensione superficiale è quella che si avverte nell'aria quando un elefante si muove in una cristalleria. Da un lato c'è la tensione dell'elefante che teme di fare danni e dall'altra la tensione della cristalleria la cui integrità dipende solo dall'elefante. E' un equilibrio molto precario ma anche dispari e chi sta peggio è sicuramente la cristalleria perché non potrà evitare il disastro. In termini umani, la differenza rispetto alla definizione fisica è che la tensione superficiale da forza può tramutarsi in debolezza come quel filo che si perde nel bel mezzo del discorso.


true

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C

om'è vero che a strappare i lembi può non essere solo uno sguardo e noi, abili manovratori di parole, sappiamo quanto, anch'esse, possano strappare lembi, aprire parentesi, e da superficiale tutto diventa più intimo e, oltre lo sguardo e la parola, come un brand, l'intimo può diventare intimissimo quando aggiungi quella vocalità che da strumento diventa un mezzo. La parola che da vibrazione diventa sonorità con timbro, intonazione e ritmo, per ridiventare vibrazione in chi ascolta. Accade così che la vocalità, apre altri lembi trasferendosi da labbra a labbra come qualcuno teorizza, secondo me a ragione, sul nesso fra il godimento femminile e l'onda sonora interna prodotta dall'onda vocale. Dalla pelle al cuore.

autoreggenti

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C

i sono storie o, meglio, ritagli della tua vita che non hai mai raccontato. Nessun pudore o segreto da custodire, solo frammenti di te che non hai mai condiviso per quel timore, giustificato o meno, poco importa, dove la bellezza, non avendo gli stessi canoni per tutti, fa da sponda alla tua paura che quello che per te è bello potrebbe non esserlo per gli altri, così t'intimorisci e, nel tuo altruismo sentimentale, decidi di proteggere la storia più che te stesso. Come l'intimo di un boxer e di quello che c'è dentro che non lo sveli alla prima che ti capita ma alla seconda sì anche perché una terza potrebbe non capitarti. Quel velo, senza sapere nemmeno perché, d'improvviso, non è più un timore e come fa la trivella col petrolio decidi di portare a galla quella storia e raccontarla per intero. Senza inibizioni. Senza freni. Senza zone d'ombra. Le righe stanno per finire e di una cosa sei certo: non t'importa un cazzo se piacerà o meno. Nessuna speculazione, nessun esibizionismo, solo la voglia di racconatare una storia già finita. Manca solo il titolo e "storia di una storia mai raccontata"è proprio quello che le calza meglio. Come autoreggenti dove il resto è carne.

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uando ti dicono che nella vita ci vuole culo non bisogna crederci. Le cose vanno come devono andare.

figate

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i viene da pensare che per tanti bambini il cucchiaio perderebbe molto senso se non ci fosse più il barattolo della nutella. Allo stesso modo, se non ci fossero quei luoghi dove ognuno può trasformare in pixel la rappresentazione di se stesso, faremmo a meno di tante filosofesserie e di altrettante esibizioni dove la vita è una perenne acrobazia e l'attore, oltre a scriversi il copione, se lo recita pure. Senza stuntman, senza rete e con la voce impostata. Il filo teso è, ovviamente, pure spinato. Quell'autoerotismo che porta ad essere eroi di se stessi.

stoccolma

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A

ltre storie. Non d'altri. Altre. Diversamente uguali. Tutte iniziano. Alcune durano. Altre finiscono. Tutte diverse ma anche tutte uguali in quell'unico punto che è comune ad ognuna. Quel punto che non sta nella storia della storia ma nella sua geografia. Tutte, nessuna esclusa, iniziano e finiscono nello stesso, preciso, identico punto dove sono cominciate e non cambia nulla se l'hai conosciuta a Parigi e ti ha lasciato in Svezia dicendoti "stoccolma". Anche se non avevi colto al volo, non era una capitale ma uno stato d'animo definitivo. Ecco, ogni storia, nessuna esclusa, nasce e finisce sempre nello stesso posto. Dentro di noi.

step

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C

ome i suoi percorsi, fra curve d'ombra e rettilinei di sole, ripercorrendo il suo, fissò nei quattro step che al tirar delle somme erano per lui altrettante sconfitte o partite perdute. Cinque se ci avesse aggiunto anche Gengis. Evitò di dedicare anche un solo chilometro o meno alla spartizione delle colpe. Sarebbe stato sleale perché un tale giudizio non può essere di parte. Le cose accadono e le colpe, non cambiando il passato, non gli avrebbero alleggerito il secchiello dei cocci. Ad un semaforo rosso si concesse uno sguardo allo specchietto al quale consegnò velocemente la coscienza che nel suo campionato aveva perso, è vero, cinque partite ma ne aveva vinte anche di più. Avrebbe potuto sorridere soddisfatto se, prima di dilatare le labbra non avesse riconosciuto che, a differenza delle sconfitte, le sue vittorie le aveva ottenute tutte fuori casa ovvero fuori dai propri sentimenti. Con la velocità dei suoi sbalzi d'animo passò da un sorriso abortito all'amarezza consapevole che ognuno dovrebbe dedicarsi solo a quello per cui è tagliato perché, sole o non sole, dicembre è sempre in agguato. L'impazienza di un clacson lo riportò al verde. In tutti i sensi.

stop

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C

i sono due motivi per i quali preferisco le rotonde ai semafori. Motivo uno, hanno finalmente dimostrato che il semaforo non ha nessun concetto di sicurezza rispetto allo stop perché entrambi sono sicuri solo se vengono rispettati ma, a differenza dello stop, i semafori costano di più e, inoltre, in termini psicologici, sono anche meno sicuri perché, mentre prima dello stop, non fidandoti, sei portato comunque a rallentare, al semaforo, invece, vedendo il verde a distanza non rallenti. Motivo due, la rotonda abolisce proprio il concetto d'incrocio eliminandolo alla radice. Come il cielo. Non ci sono più spigoli. Angoli. L'incrocio si smussa, il percorso scorre e le direzioni, se cambiano, lo fanno in modo più morbido. E se non fosse morbido e fosse traumatico si può sempre riconciliarsi con la vita con quella frase che non so se o dove l'ho letta. Meglio un po' di dolore che una falsa felicità.


raccapricciante

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R

ipensando a Valentine mi è tornato in mente Sasà quando, una sera, parlando del come eravamo, raccontava che, intorno ai 17 anni, lui era uno con la testa un po' fuori e che al primo accenno si buttava nella mischia, così una sera, in discoteca, vedendo quei tre o quattro che infastidivano quella ragazza non riuscì a trattenersi e gli disse di smetterla. I tre o quattro gli risposero di farsi i cazzi sua e lui, malgrado fossero di più ed anche più grossi, "non ci vidi più e gli saltai addosso, e nfrungt nfrangt, nfrungt nfrangt, acchiappai tant' 'e chelli mazzate". Scoppiammo a ridere per la velocità con la quale aveva manipolato le nostre menti obbligandoci a pensare che la stava sparando grossa per sorprenderci poi come un prestigiatore che ci lascia a bocca aperta. Valentine, invece, era diverso. Lui era un violento vero. Guai a fargliele girare. Una volta, aveva gli occhi accecati di sangue, cercai di trattenerlo ma, quand'era così, nessuno poteva fermarlo. Fu un attimo. Aprì il blog, affondò le dita sulla tastiera e, del suo nemico, lasciò sul pavimento solo brandelli di carne. Raccapricciante. Le ragazze impazzivano per lui.

nocciola e cioccolata

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U

na domenica mattina di un maggio che cominciava a spogliarci ed alleggerirci dandoci una maggiore consapevolezza del corpo, mia mamma mi pettinò i riccioli biondi. Pantalone blu, camicia bianca e la mia prima cravatta. Rossa. Uscii con papà e mi portò in quella piccola sala dove sarei stato iniziato alla vita sociale. Entrati, prendemmo posto. Un uomo, ci parlò con un linguaggio semplice e senza bisogno di parabole del concetto di sacro. Un concetto che differiva molto da quello che mi spiegavano a scuola. Infatti disse che proprio la scuola, per l'importanza che la conoscenza ha nella vita, dovrebbe essere considerata un luogo sacro. Allo stesso modo, sempre per l'importanza che ha nella vita, ogni luogo di lavoro dovrebbe esserelo. Allo stesso modo un tribunale, come un ospedale, come, ancor di più, un parlamento. Questi, disse, sono i luoghi che avrebbero diritto alla sacralità. Possono essercene anche altri, sicuramente ma, in qualunque società, quello che ha a che fare con le divinità è qualcosa che appartiene al privato e non ha nulla a che spartire con il sociale altrimenti davvero confondiamo il sacro col profano. Non durò molto la cerimonia della mia Prima Comuni sta e, quando uscimmo dalla sezione, mio papà, mi portò a comperare il gelato. Il giorno dopo a scuola, un mio compagno mi disse che aveva fatto la prima comunione. Gli dissi che l'avevo fatta anch'io ed il mio gelato era stato "a nocciola e cioccolato, e il tuo?"

butterfly

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C

ome per alcuni aforismi, dove la parte non è il tutto, per evitare nervetti scoperti e sprecare pixel, si dovrebbe leggere fino in fondo perché il succo, spesso, è nell'ultima riga. Ripensando a Valentine, faccio sempre più invidia a Nostradamus. Butterfly, invece, è una tortorella che due giorni fa, al primo volo, immagino che abbia fatto il passo più lungo della gamba e la torre di controllo le avrà suggerito il mio balcone come pista d'emergenza. La raccolsi ed adagiai in un vaso rettangolare che conteneva solo terriccio ed un ricordo di viole. Ora, quando mi avvicino per cambiarle l'acqua o darle del miglio, non mi caga proprio e nemmeno mi dice perché. Sarà stronza ma è coerente perché se te ne fotti di qualcosa, nel momento stesso in cui ne spieghi il perché, vuol dire che te ne fotte più di quanto dici. Ormai si è accasata ed io, per vendicarmi col destino che anziché una farfalla mi ha recapitato un uccello, l'ho chiamata Butterfly.

fly

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D

ecido di tornare a casa un po' prima e mi fermo anche a comprarle qualche vermetto sperando si riveli per lei una leccornia. Butterfly però ha preso il volo. Lascio i vermetti nel vaso, nel caso tornasse e provo ad accarezzare il mio esserci rimasto male dicendomi che in fondo la sua vita non era il mio vaso. Senza drammatizzare mi viene in mente quella domanda "Che cosa succederebbe se il volto umano esprimesse fedelmente tutta la sofferenza di dentro, se l'espressione traducesse tutto il tormento interiore?". Succederebbe quello che è successo, Cioran. La mia espressione si è rattristata per un tempo proporzionale all'amarezza perché il volto umano esprime automaticamente ed abbastanza fedelmente il tormento interiore e quando non lo fa, è proprio perché siamo noi a fare sforzi enormi per nasconderlo o mascherarlo. Fino a fuggire quando sappiamo che non riusciremo ad evitare che diventi liquido. Forse, quello che l'espressione riesce a mascherare bene sono solo l'intelligenza e la sincerità. Le due cose su cui è più facile sbagliarsi.

crazy rain

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I

l fatto che la scienza non l'avesse previsto non significava affatto che fosse un miracolo e infatti non lo era. Accadde in un giorno di un luglio particolarmente caldo e venne definito il fenomeno della nuvola lampeggiante ma anche crazy rain perché una nuvola, trasformandosi in pioggia, si dissolveva nel giro di pochi secondi e dopo pochi secondi si riformava di nuovo. Durò per qualche ora. In effetti le gocce d'acqua che formavano la nuvola, come avviene normalmente, appesantendosi cominciavano a cadere come una normale pioggia ma incontrando poi lo strato d'aria particolarmente calda, arrivavano a meno di due metri dal suolo e, senza toccarlo, rievaporavano immediatamente tornando a formare la nuvola per poi riappesantirsi immediatamente e piovere di nuovo. Il fenomeno comportò una pioggia che colpiva i passanti ma non i bambini e rievaporava immediatamente. La cosa si concluse dopo qualche ora, forse, per il suicidio in massa delle gocce che si erano rotte i coglioni di partecipare a questo psicopatico gioco verticale improvvisato dalla natura.

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