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dentro

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C

ome in ogni nave, dove la sala macchine è posizionata nella sua parte più intima, alla fine del film, andando incontro alla notte con l'ultima fetta di mandorlato e the bollente, mi ritrovo a riflettere sul fatto che anche noi siamo fatti così. Per questo, forse, solo il titolo, più che "the words" doveva essere "dentro" perché è proprio "dentro", nella nostra sala macchine, che il confine fra le bugie e le verità si riduce fino ad annullarsi. Il luogo dove esse, sedute allo stesso tavolo e senza litigare, contrattano sulla convenienza operativa o sentimentale dell'una o dell'altra. È quello il tavolo rotondo della nostra intimità dove si riuniscono, ciascuna col proprio ruolo, le nostre bugie, verità, onestà, lealtà, sentimenti, ambizioni, interessi e scopi. Discussioni intime, accese o serene, dalle quali usciranno decisioni e, quindi, comportamenti che saranno altrettanto sofferti o sereni in relazione ai compromessi che faremo con noi stessi. Quei compromessi che, essendo il termometro della coscienza, pur di star bene con se stessi e volendo perciò evitarli, portano alcuni a ricorrere all'unico antibiotico che, anche se penalizza, funziona. Quell'antibiotico che si chiama solitudine e che, in effetti, è solo un surrogato derivato dal vero antibiotico che sarebbe l'indipendenza. Quell'indipendenza di pensiero e quindi d'azione che, in un regime universale d'ipocrisia, è assolutamente impossibile da raggiungere completamente.


temperamatite

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U

n bimbo che gironzola fra i tavoli diventa il filo invisibile che riunisce due ricordi. Lei viene a riprenderlo. Un volto che ti riporta indietro. Il nome, invece, non lo ricordi più. Due sorrisi, accennati più con gli occhi che con le labbra, si prendono il tempo sufficiente a restare privati rispetto ai tavoli cui appartengono.

Mangiando la pizza, lo sguardo scivola al televisore che mostra le immagini di un mondo intero che commemora Mandela. Un'altra vetrina che mette in bella mostra l'ipocrisia del rispetto per la morte e mai quello per la vita. Un rispetto nel quale tutti si accomunano nelle foto ricordo perché il gregge non capisca contro chi combatteva Mandela e non capisca chi lo chiuse in galera buttando via la chiave. Nel passaparola dei pastori la regola è quella che nelle commemorazioni si depongono le armi e si fa cerchio perché il gregge non deve distinguere da che parte sta il bene e da che parte il male. Chi è il buono e chi il cattivo. Qual'è il bianco e quale il nero. Nelle commemorazioni deve restare tutto grigio e, in prima fila, nel palco delle ipocrisie, ci sono sempre proprio quelle istituzioni che creano gli eroi. Come se, il 27 gennaio, in prima fila, Hitler e Mussolini partecipassero commossi alla Giornata della Memoria.

Poco più di un anno dopo ti ritrovi a guardare la folla oceanica a Place de la Nation e in prima fila, immancabili, sempre loro. Colpevoli di nulla. Nemmeno dei mostri che hanno creato.

iceberg

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G

iorni questi in cui gli eventi hanno portato alla ribalta il tema della libertà in tutte le salse ma, spesso, piuttosto che occasione di analisi e riflessione, è stata vetrina di contraddizioni e di confronti ipocriti fra civiltà e fondamentalismi.
Nel bailamme mi è capitato di leggere anche riferimenti all'obiezione di coscienza che, fra le righe, spero di sbagliarmi, sembrano confermare che per alcuni essa è nientemeno che un valore del diritto. Questo la dice lunga sulla superficialità con la quale riflettiamo sui concetti e sull'approssimazione che porta a considerare acquisite, in termini di diritto, cose che non lo sono affatto.
Molti, ad esempio, ritengono che rientri nel diritto di un farmacista rifiutare un contraccettivo giustificandosi con l'obiezione di coscienza ma ignorano che essa, per fortuna, non è una legge dello Stato. Accade però che in un ospedale un medico potrebbe rifiutarsi, senza essere penalmente responsabile, di eseguire un aborto a meno che, tale rifiuto, non divenga un effettivo pericolo per chi lo richiede. La tolleranza di una tale autonomia, non di pensiero ma d'azione, evidenzia la superficialità di uno stato di diritto. Evitando altre considerazioni, rifletterei sull'assurdo costituzionale in cui ci troveremmo se l'obiezione di coscienza fosse legge perché, tale ipotesi, ci darebbe una visione completamente diversa da quella sufficiente ed omologata che usiamo abitualmente e vedremmo anche il diritto in modo più degno rispetto a un'opinione qualunque.
Pensare differente significa non sottovalutare mai che la parte più grande di un iceberg è sempre quella sommersa.  Per questo, spesso, il presuntuoso non è altro che l'opposto del superficiale.

Nico & Tina

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V

ietare di fumare sui set televisivi e cinematografici in fondo è giusto se si considera che la televisione ed il cinema sono strumenti educativi. Ben venga perciò che questo eventuale divieto, con la stessa coerenza, venga poi esteso anche agli autori letterari ovvero proibire che i loro personaggi fumino ed a prescindere se in prosa o in versi. Naturalmente il proibizionismo dovrà essere esteso anche al teatro ed ai testi delle canzoni e speriamo che sia solo il primo passo verso una censura totale che, dopo il fumo, passi a vietare anche scene in cui si fa uso di alcolici e droga, scene di violenza e scene di guida spericolata oppure scene in cui si fa uso e abuso di panini, hot dogs, bibite ipercaloriche e, non una, ma addirittura ddoje fritture. Mi chiedo cosa lamentano questi registi. In fondo, di letteratura da riconvertire in sceneggiature ne hanno a iosa. Potrebbero rivisitare Hansel e Gretel, attenti solo a non chiamarli Nico & Tina oppure rivisitare Biancaneve, attenti a non chiamarla Bianca Neve. Nemmeno per i sette nani sarebbe difficile trovare gli attori giusti ed i registi potrebbero pescare nel fantastico Paese delle Meraviglie dove più che il tabacco ci siamo ormai fumati anche il cervello.

Lacan

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U

no che adopera il linguaggio indifferentemente come matita o foglio ma sempre e soprattutto come veicolo d’emozioni o per farne ascensore dell’inconscio, un giorno o l’altro, dovrà decidersi a scrivere un post su Lacan. Lo farò ma devo prima mettere un po’ d’ordine nella mia borsa dei ferri. Perché quando è a posto quella, sono più rilassato. Quasi felice. Come quando io e lo specchio combaciamo. In attesa di Lacan mi limiterò a qualche riflessione soft sul resveratrolo che torna di moda perché si chiama anche trans-resveratrolo che, come tutti sanno, è un fenolo di cui è particolarmente ricca la buccia dell’acino d’uva. Una fitoalessina prodotta dalla vite per difendersi da batteri e funghi ed anche dall’oidio.
Oidio?
Certo, l’oidio. Che non è né iodio e nemmeno odio. E’ oidio. Ed ora qualcuno me lo spiega come si fa a non amare la lingua italiana? Perciò non restarci male se ti dico che è l’unica lingua che riesco a tenere in bocca più tempo della tua.

[28.10.2009]

stones

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I

n un inverno che timbrava straordinari per sostituire una primavera in malattia, spostavo i miei sassi dalla mensola. Erano gli unici oggetti che portavo via dai miei viaggi. Quello rosso d'America. Quello quasi giallo che mi ricorda Dalla. Quello d'Oriente nero come l'ebano. La schiuma dell'Etna. Quella del Vesuvio. Con delicatezza li rimettevo a posto ripensando a quelle domande apparentemente retoriche che, come stalattiti mai ferme, vanno a consolidare, stratificandolo, un diverso modo di pensare o, forse, d'essere senza cambiare. Un modo che sedimenta risposte che sono nuovi strati di certezze e, fra ogni sasso, quello spazio sul quale, a volte, mi soffermo più che sulle cose perché anche le distanze sono una parte e i sassi solo una data. Fu guardando quelle distanze che capii che qualcosa non quadrava e, mentre prendevo l'ultimo, mi chiedevo se sarebbe stato più felice sulla mia mensola o restare là, assieme agli altri, nel suo mondo. Lo stavo raccogliendo senza rendermi conto che per trasformarlo in un mio ricordo, avrei trasformato il suo mondo in un suo ricordo. Stavo barattando il mio piacere con la sua infelicità. Lo rimisi dov'era e smisi.

detrazioni

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foto di V. Ivanovski

N

ella mia funzione di scassacazzi che mi porta spesso a mostrare il vuoto che c'è sotto dogmi di apparente spessore oppure a sfoltire quel pelo che nasconde cicatrici profonde, rileggendo una delle tante pagine riservate alla vita di alcune sante, nello specifico quella di Elisabetta d'Ungheria che apre anche a tante altre riflessioni, vengo trascinato nella considerazione che non c'è nessun significato universalmente riconoscibile nel termine amore perché esso è malleabile e modellabile non solo da caso a caso ma da casta a casta. Se non fosse così, in termini puramente statistici, non sarebbero eccezioni i matrimoni fra nobili e proletari, fra ricchi e poveri, fra personaggi mediatici di primo livello e gente comune. I numeri, sempre crudamente e crudelmente, dicono invece che l'amore non è solo nelle sue svariate definizioni un sentimento oggettivo ed universale ma, in realtà, è invece un sentimento modellabile, modulabile e convertibile ed in esso non c'è nessuna immaginifica sacralità. Nulla di altissimo, anzi, un sentimento terra-terra che rientra anch'esso nel mercanteggiare assoggettato alla propria convenienza. Non a caso, la massima espressione di amore, inteso come sentimento di altruismo, riferendolo alla categoria dei ricchi da Forbes o da schifo, è l'elemosina che nelle sue camaleontiche forme di presentabilità assume la dignità soltanto lessicale di carità, beneficenza o solidarietà. Noi poi, ancor più, nella nostra totale ipocrisia, nascondendoci l'evidenza che la ricchezza da schifo nasce sempre, solo e comunque dallo sfruttamento, fingiamo di non vedere il suo trasformismo quando essa prende un'evanescente parte di sé, come la schiuma che fuoriesce dal bordo del bicchiere o come l'osso gettato al cane, e passandola ovviamente per il beneficio delle detrazioni fiscali, la trasforma non in reddito per chi, da sfruttato l'ha prodotta e gli competerebbe, ma in elemosina verso quella parte di umanità che ringraziando eleggerà a benefattore e mecenate, non chi quella ricchezza l'ha prodotta, ma proprio il suo sfruttatore. La miseria estrema di quella parte crescente di umanità che non deve estinguersi altrimenti trascinerà con sé, nell'estinzione, quell'altra parte di umanità fatta di benefattori, predicatori, onlus e dame di carità che di essa si nutre. Per questo, sarò pure uno scassacazzi, ma come negare che il tanto decantato amore è anche quello che compare fra le voci di un volgarissimo bilancio aziendale o dichiarazione dei redditi. Perciò, quando ne cianciamo dovremmo avere anche il buon senso di volare bassi senza levitare troppo su quell'amore ch'a nullo amato amar perdona.

bianco e nero

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P

remesso che ho sempre preso i commenti solo come opinioni che possono concordare o meno con le mie, quelli positivi non mi hanno mai eccitato al punto da farli diventare ricami per il cuore e dirottamenti in spazi privati perché se avessi voluto masturbarmi ad ogni complimento sarei diventato cieco da tempo. Allo stesso modo, i commenti negativi, non mi creano antipatie e neppure isterismi uterini. Detto ciò, una frase estrapolata da un recente commento, "credevo di essere sola nella mia visione", mi fa dire che, alle volte, il fatto di non ritrovarsi soli non autorizza a pensare di ritrovarsi in buona compagnia ed è importante questa riflessione e ti ringrazio Blanche, perché se è vero che tu ed io siamo in compagnia nell'affermare quello che affermiamo, dall'altra parte, quelli che affermano il contrario, oltre ad essere in compagnia sono anche in maggioranza. Ora, conta poco quale delle due opinioni sia la più corretta, la banale riflessione che faccio, nell'eventualità in cui fosse corretta la nostra, è che stare dalla parte della maggioranza, in termini intellettuali, non garantisce di stare in buona compagnia, conferma però che la maggioranza non sempre è espressione di democrazia ma, tante volte, considerato lo spessore culturale della popolazione di cui è espressione, conferma l'opposto.


frammenti

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N

ella necessità di recuperare a spazio un cassetto mortificato a contenitore di ricevute e carte varie che, a differenza del vino, col tempo non acquistano valore, mi ricapita fra le mani un vecchio foglio e scorrendolo posso fare un saldo rispetto al tempo. Nessuna nostalgia. Non sono il tipo che, sentimentalmente, veste i ricordi con gli abiti più belli facendo quasi sempre un torto a quello che è il suo attuale. Nessuna malinconia, solo un freddo raffronto fra due momenti. Non c'è più lei nella mia vita e non ci sono più io così com'ero. Nessuna saudade. La vita funziona così. Guardando il fondo di quel foglio, quello che brucia è altro. Rileggo quella frase "ti amo anche per questo" e la freccina disegnata ad indicare il saldo di quell'estratto conto. Sorrido ripensando alla sua ironia e decido, per una volta, di lasciarmi andare ai sentimenti. Stacco con cura il lembo su cui c'è la frase. Conservo l'estratto e butto via il frammento.

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L'

amore è uno, il modo di amare è diverso in ognuno. Fin qua nulla di nuovo. Come certi incontri, certe persone. Non le mandiamo a cagare subito solo per educazione e dopo, ascoltandole ed osservandole, sempre senza nemmeno volerlo, ma solo per educazione, ci sono entrate piano piano dentro e gli abbiamo concesso un piccolo monolocale nel cuore fino al punto che basterebbe un piccolo passo perché, dopo la finestra sul giardino, gli apriremmo anche la porta fra le cosce. Tornando all'amore-uno, non solo il modo di amare è diverso ma è diverso soprattutto il modo di essere amati. L'amore se davvero ha una sola forma significa che ha anche una sua identità immutata ed immutabile. L'amore è bambino e tale resta. Dico bambino perché è nel bambino che si forma il concetto d'amore. Il concetto di bisogno, di necessità. Non quello di dare amore ma di riceverlo. Non di darlo, perché un bambino vuole bene a prescindere, in modo naturale. Il problema di dare amore, il bambino nemmeno se lo pone. Lui distingue invece il modo in cui è amato e ne soffre o ne gioisce. Lui si attacca ad una forma di amore. Quella che più si avvicina alla sua necessità, quella che più lo soddisfa. Lo riempie. Il vero amore non è quello che da ma quello che sceglie fra quelli che riceve e se lo porterà dentro. La stessa differenza fra il lavoro che ti scegli e quello che ti danno. Tante volte l'amore che scegliamo è solo quello che più si avvicina a quello che vorremmo. Per questo tradiamo. E' un magnetismo inevitabile.
La sera è di quelle classiche. Senza sole. Almeno così pare. Poi s'illumina. La mattina è di quelle classiche. Col sole, ma sotto la doccia ti ricordi il suo nome. E' primavera. A prescindere da marzo.

grammatica

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F

inalmente dopo 12 sedute di analisi per un totale complessivo di 960 euro rigorosamente senza fattura, Sigmund è venuto a capo del mio malessere verso questo paese. Avrei potuto risparmiare se mi avesse evitato le prime sedute scrutando minuziosamente nelle mie abitudini e gusti sessuali ma l'avergli detto che per me il sesso dev'essere un'esplorazione ad ampio spettro alla ricerca del più intimo piacere, è stato come invitare a nozze la sua morbosa curiosità. All'individuazione del mio problema c'è arrivato in capo a 4 sedute. Non ricordo il motivo per il quale gli ho detto "avrebbe potuto essere" e lui mi ha chiesto "perché hai detto avrebbe e non sarebbe?". Per la prima volta ha colto un mio turbamento. Per uno strizzacervelli la traccia di un turbamento diventa la pista da seguire. Ha cominciato in modo soft: "se fosse o se sarebbe?", poi l'uso delle virgole e del punto e virgola, ed il fatto che lui ne sapesse meno di me non contava un cazzo perché lui non cercava la risposta esatta ma misurava l'andamento dei miei stati d'animo, paure e confusioni. Nelle sedute successive mi ha fottuto con l'uso dell'apostrofo e dell'accento, l'apòcope e l'elisione. Alla fine ha diagnosticato che io ho una subconscia avversione non per il paese o per la lingua ma per la grammatica e me lo ha dimostrato. Mi ha dato un volume e mi ha chiesto di leggere ad alta voce mentre la sua assistente mi avrebbe succhiato l'uccello. Ho cominciato a leggere:
"La questione dell’ausiliare richiesto da un verbo servile è regolata dalla norma grammaticale secondo la quale, l’ausiliare è quello proprio dell’infinito. La norma prevede però la possibilità di una deroga. Si può cioè usare l’ausiliare avere se il verbo retto è intransitivo. Inoltre, se l’infinito è essere, l’ausiliare del verbo servile è avere. In caso di infinito passivo, l’ausiliare è quello proprio dei verbi transitivi, cioè avere".
In poche parole non ci ho capito una mazza. Un gioco delle parti fra transitivi, intransitivi, essere ed avere che nemmeno Pirandello. Allo stesso tempo l'assistente ha preso atto, non so se più delusa o contenta, che non c'era nessuna traccia d'erezione. Aveva ragione Sigmund, la grammatica è il mio problema. Ho pagato ed ho rimpianto quello che avrebbe potuto essere o sarebbe potuto essere un pompino gratis.

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P

iuttosto che darci arie di democrazia dovremmo riconoscere che siamo quelli che eravamo e siamo sempre stati, il paese del Pensiero Unico, quello degli altri però, ed al quale abbiamo sempre accodato e sottomesso il nostro, un po' per pigrizia, un po' per incapacità, un po' per ignoranza, un po' per cecità intellettuale, un po' per quel servilismo che è radicato nel nostro DNA. Quel Pensiero Unico imposto dai balconi sotto i quali abbiamo sempre manifestato il nostro oceanico e plebiscitario servilismo ai vari imperatori, papi, re e sovrani, fino al balcone del duce, per arrivare poi alla democraziuccia fatta in casa. Non frutto di una rivoluzione popolare come quella francese, perché serve un popolo con le palle per fare una rivoluzione ed è per questo che non li sopportiamo, perché sono quelli che, già prima della rivoluzione, non impiegarono molto a restituirci i papi con annessi e connessi e poi, dopo, si ripresero anche Avignone. I francesi non li sopportiamo perché sono come lo specchio della regina.
"Specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?"
"
Une autre, mais pas vous!", risponde lo specchio francese all'aristocratica di turno.
Noi preferiamo lo specchio ammaestrato, quello che ci infiocchetta le risposte inorgogliendoci di belli, colti, poeti e navigatori, santi, inventori, artisti, [omissis]. E sono proprio gli omissis che, per distrazione mica per malafede, ci sfuggono: mafiosi, camorristi, corrotti, concussi, razzisti, incivili, mazzettari, cattolici di facciata, analfabeti, evasori. Siamo anche gli 8 marzo inutili, i 25 aprile fasulli, i 25 dicembre ipocriti ed i 2 giugno bugiardi.
Una democraziuccia che non fu l'urlo di una rivoluzione popolare ma solo l'elemosina fattaci da una guerra vinta da altri e da noi perduta. Il vagito di un referendum col quale a stento la repubblica prevalse sulla monarchia e dopo 70 anni siamo sempre la monarchia di un Parlamento con i fascisti dentro ed i partigiani fuori.

steam

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L

a noia di un giorno apatico, inutile come le parole in una frase senza verbi, si consuma in un pomeriggio che, come un ponte, collega un mattino piovoso ad una sera con le strade argentate. Considerato che il cogito ergo sum non mi convince molto, è l'aria calda dei polmoni che, arricchita dal fumo della sigaretta, mi toglie un dubbio atroce. Respiro, ergo sum.

satira

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ipensando a quel made in Italy che, come facciamo con i Nobel, ci piace sventolare solo se ci conviene, dopo averlo fatto i cinesi ad Hong Kong in opposizione al regime di Pechino, dopo i turchi ad Istambul in rivolta contro l'islam autoritario di Erdogan, dopo i francesi a Parigi in nome della libertà d'espressione anche i greci ad Atene ci hanno dato una lezione dimostrando quanto la nostra millantata cultura sia solo una patetica esibizione del nulla visto che confondiamo e trattiamo l'inno al 25 aprile come se fosse un inno al comunismo. Questo video è anch'esso satira ma, non avendone la capacità, non abbiamo compreso che l'oggetto della satira siamo proprio noi perché Bella Ciaoè universalmente riconosciuto quale inno alla libertà. Non da noi.

caos

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N

ella ricerca nervosa di una calza dispari mi arrendo ed aggiorno la mia moleskine delle parole inutili aggiungendoci caos. Mi spiace per Esiodo, Anassagora, Platone, Talete e quanti altri hanno perso tempo a cercare la definizione di quel vuoto che nessuna mente umana può concepire tant'è che loro stessi, infatti, lo ipotizzano ricorrendo a quello primordiale che di per sé si riduce al solito, banale ed approssimativo atto di fede che non spiega nemmeno l'atto stesso. Peggio ancora, nell'irrazionale affanno della mente umana, mentre dio, pur essendo una risposta che non risponde alla domanda, ha comunque una sua logica, il caosè invece una risposta che, anziché risolvere la domanda, ne crea più di una e, tutte, portano alla conclusione che il vuoto e, quindi, il caos, non potevano esistere a meno che non coincidessero proprio con dio e, qui, l'unico che ci è andato più vicino è solo Eraclito. Alla fine, l'unico dubbio vero è dove sia finita la mia calza.


recherche

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I

l titolo sarebbe impegnativo e nemmeno alla mia portata ma è solo uno spunto perché la ricerca di cui parlo è quella, arrogante ed ignorante, con la quale ci sciacquavamo la bocca sul mondo del lavoro pur di distinguerci dai paesi emergenti e raccontavamo che il nostro paese doveva puntare sulla ricerca. Il solito parolone gettato nell'ovile. Quale ricerca? Quella medica che finanziamo con gli sms da due euro o quella tecnologica dove non siamo capaci nemmeno di costruire stereo per le auto? I paesi emergenti, senza tante filosofie, sapendo da millenni che ogni cosa riproduce sempre stessa, si sono impegnati solo in quello e partendo dal dato di fatto che il danaro genera danaro, il rispetto genera rispetto, l'ignoranza genera ignoranza e il lavoro genera lavoro, sono emersi. Non gli davamo credito perché, a nostro dire, senza di noi non sarebbero mai cresciuti e mentre mettevamo il culo a sedere intorno ad inutili tavole rotonde discutendo di fantomatiche strategie del futuro, gli altri crescevano, derisi e sottovalutati perché scopiazzavano e realizzavano prodotti di bassa qualità. La qualità, in realtà, come nel movimento dei bambini, è solo il passo che precede quello successivo e noi, invece che investire in crescita puntando su lavoro e scuola, scaccolandoci e blableggiando senza sapere nemmeno di cosa parlavamo, ci ritroviamo oggi arricchiti dell'unica ricerca che abbiamo veramente sviluppato: quella del lavoro. Disoccupazione e futuro, inteso come sogno, sono diventate il prodotto più esportato del made in Italy.

astinenza

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L

e definizioni, in termini di perimetro nel quale collocare qualunque cosa, sono sempre abbastanza approssimative ed hanno confini labili se non apparenti. Tenendomi alla larga dall'esprimere giudizi e chiedendomi se leggere o scrivere non possano considerarsi due forme di dipendenza, arrivo alla conclusione che solo una di esse può esserlo ed è la meno sospettabile perché la lettura, considerata la necessità quasi patologica di molti accaniti lettori, appare sicuramente come una dipendenza. Tenuto conto però della enorme quantità di dosi spacciate in giro, sia a pagamento nelle librerie o gratuite nelle biblioteche pubbliche, è indubbio che non possa definirsi dipendenza perché è praticamente impossibile finirne in astinenza, cosa che invece può accadere a chi scrive. In termini puramente patologici, è indubbio perciò che scrivere sia più rischioso che leggere ed è forse proprio per ripagare questo rischio che, se è vero che il lettore si arricchisce nell'anima, lo scrittore si arricchisce nel conto in banca. È una forma di compensazione che ripaga anche dello svantaggio che ha lo scrittore di non poter riscrivere lo stesso libro mentre il lettore può rileggerlo. È anche vero che se, tanti scrittori, fossero anche lettori di se stessi, il territorio e l'ambiente sarebbero meno a rischio per una minore deforestazione selvaggia, in questo caso però non parleremmo di astinenza ma di consapevolezza.

autocertificazione

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L'

autocertificazione è una dichiarazione che il cittadino può redigere e sottoscrivere nel proprio interesse su stati, fatti e qualità personali ed utilizzare nei rapporti con i gestori di pubblici servizi. Tale pratica, prima di essere fatta propria dalla pubblica amministrazione, nasce nelle community dove ciascuno, approfittando anche dello spazio lasciato vuoto da Rocco Siffredi, impegnato nell'isola dei famosi, certifica se stesso. Il metodo è rimasto quello nato nelle chat ed a sua volta ereditato da una tecnica ancora più vecchia quale quella del filo che ha alla fine un amo. Le community sono laghi o lagune dove, sotto il pelo dell'acqua, c'è tant'altro pelo ed abboccare dipende dalla fame che hai o da quello che cerchi. In questi casi, il ritornello di ciò che si legge, si condensa in quel concetto che Michelangelo espresse così bene: “Non ha l’ottimo artista alcun concetto ch’un marmo solo in sé non circoscriva col suo soverchio, e solo a quello arriva la man che ubbidisce all’intelletto”. Quello che resta, tolto l'inutile soverchio, è lo scopo ed il suo accento può essere indifferentemente aperto o chiuso.

stereotipi

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È

sempre più frequente trovare, all'inizio o alla fine di un film, la frase "tratto da una storia vera" e mi chiedo perché tale frase non compariva su tanti film del grande Alberto Sordi considerato che molte sue caratterizzazioni non erano che l'icona di altrettanti personaggi che incrociamo ogni giorno nei luoghi più diversi. Personaggi che interpretano la vita più che viverla immedesimandosi fino al punto da farne un copione costellato di frasi accuratamente scelte anch'esse da film e da canzoni. L'importante è crederci e, mentre la bravura dell'attore sta proprio nella capacità di vestire e svestire gli abiti del personaggio che, di volta in volta, interpreta, la pateticità del personaggio sta nell'incapacità di svestirsi da quell'abito che è diventato per lui un ruolo metabolizzato come quelli ironizzati dai Jackal. Alla fine, nella ricerca naturale dell'equilibrio delle cose, tutto si compensa e come ci sono film ispirati da storie vere, così ci sono vite recitate come un film.

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È

risaputo che è più difficile far ridere che far piangere, non per incapacità dello sceneggiatore, ma per la facile reperibilità di materiale e, su questo, la natura è ottima complice perché le vite, come le cose, possono rompersi alla fine del loro ciclo ma anche prima se non addirittura quando sono ancora in garanzia. Il dramma o la tragedia sono sempre dietro l'angolo. A differenza del teatro o dell'opera, per motivi ovviamente tecnologici, la cinematografia ha iniziato più tardi a speculare sul dolore e Love Story può considerarsi il capostipite di questo filone. Il fatto poi che il film sia ispirato o meno da una storia vera non cambia l'intensità ed il coinvolgimento emotivo dello spettatore che può accentuarsi solo in relazione alla tendenza a crocerossina che c'è in lui. Gli ingredienti necessari alla ricetta perfetta sono abbastanza scontati e ripetitivi. Saranno le dosi ed i tempi di cottura che daranno come risultato un prodotto più o meno soft o hard.
Si comincia ovviamente da un'infanzia difficile nella quale potrà capitarti indifferentemente un padre violento e/o alcolizzato, una mamma zoccola e/o alcolizzata. Un habitat povero sarà sicuramente più gradito. Così come compagni e insegnanti di cui eri bersaglio, ti avranno ulteriormente incattivito anche approfittando dell'assenza di un genitore che prendesse le tue parti. Crescendo con una buona dose di rabbia in corpo, troverai rifugio nell'alcool o nella tossicodipendenza dalla quale però, eroicamente, stringendo i pugni e grazie all'aiuto dell'immancabile grande amore che, col culo che ti ritrovi sarà, ovviamente, anche un amore impossibile, riuscirai a tirartene fuori. L'unica concessione che farai alla tua rabbia sarà qualche sbornia che, pur se non risolve, aiuta a superare. Con la vita continuerai ad avere un rapporto conflittuale e quelle poche volte in cui le strade, inevitabilmente, s'incroceranno, saranno botte da orbi. Intanto tu, pur di vivere, farai i lavori più estremi. Per un po' sarai scaricatore di pesce in quei mercati in cui
tutto nasce e finisce nel breve volgere di una notte che vira in alba. In seguito girerai il mondo nei carrozzoni del circo, dormirai sulla paglia e darai da mangiare alle tigri del Bengala. Poi, per un po', farai il gigolò ed un film porno dove, stavolta, approfittando della distrazione della jella, nella scena del trenino, anziché essere il primo della fila col mandingo alle spalle, sarai l'ultimo con la Belen davanti. Un raggio di sole, prima o poi, tocca a tutti. Infine, farai lo stuntman che prende i pugni che spetterebbero al divo ma cosa vuoi che siano per uno che dalla vita le ha sempre prese. Con le donne, malgrado rifuggi i sentimenti perché hai un cuore che somiglia ad una noce di cocco, non puoi evitare la crocerossina che c'è in esse e più le scanserai e le maltratterai, più te la daranno a gratis. Intanto il film è arrivato quasi ai titoli finali e tu stesso, sapendo che la tua vita l'hai affidata ad un copione, non sai se lo sceneggiatore ha scelto di farti morire o di farti svegliare.

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